giovedì 1 novembre 2007

Musicisti e malati: una musica per ognuno

Stiamo assistendo già da un bel po’ di tempo al proliferare di musicisti che si definiscono e vengono definiti tali, semplicemente perché hanno studiato per diversi anni in una scuola o in un conservatorio e ne sono usciti con un bagaglio (pesantissimo) di brani di vari autori del passato imparati per bene.
Questi musicisti li troviamo poi in certe sale da concerto a mostrare in pubblico il risultato della violenza operata per anni su se stessi.
Ma sì, perché come si potrebbe definire la natura di una condizione nella quale un ragazzo di 8 o 9 anni si ritrova a vivere, quando deve interpretare un brano composto da un autore che all’epoca aveva 50 anni?
Cosa ne può sapere un bambino di 8 anni delle problematiche emotive e spirituali che poteva vivere un uomo di 50 anni che magari, nel 1800, ne aveva già viste di cotte e di crude?
Che operazione deve escogitare ‘sto poverello per far capire al suo cuoricino che deve far finta (ma per davvero) di aver già vissuto 50 anni che non conosce ancora?
Sarebbe come se una bambina che, all’età di 8 anni, si mettesse ad interpretare il ruolo di una lap-dancer.
Credo che nel migliore dei casi susciterebbe ilarità, altrimenti soltanto tristezza. Infatti non avrebbe le carte per esprimere la sostanza del ruolo che interpreta.
E allora come mai non ci viene il “magone” a vedere un quattordicenne (ma anche un ventenne) che si sta emotivamente violentando in pubblico? Forse che il proprio corpo non si può falsificare mentre coi sentimenti invece si può ?
È come se si venisse lodati quanto più riesce ad essere convincenti sul fatto di essere altro da stessi.
Alla fine si potranno immaginare i sentimenti di Beehtoven o di Chopin, ma questi non saranno mai i sentimenti in armonia con la propria crescita naturale.
Che poi adesso, detto tra noi: ma ce ne frega ancora qualcosa di sentire dei concerti tenuti dall’ennesimo bambino-prodigio?
Io credo che il ruolo dell’interprete, oggi, abbia già fatto il suo tempo.
All’inizio del 1900, quando c’era ancora il grammofono, aveva senza dubbio un senso l’andare ad un concerto dal vivo di musica classica.
Era sicuramente un’esperienza entusiasmante.
Era il pianista che “ti faceva sentire la musica viva”.
Ma oggi, con il digitale, ci sono incisioni di musicisti straordinari che hanno ormai scavato a tal punto tra le righe degli spartiti, da poterli quasi considerare dei veri propri “originali”.
Credo che anche Chopin, nel sentire una sua ballata interpretata per esempio da Maurizio Pollini, non possa che affermare: <<…però!>>; se non addirittura:
<<>>.
Oggi si è portati ad andare a sentire il concerto per vedere se il tal interprete "fa giusto" come quello nel disco che si ha a casa propria.
E poi, una domanda: ma la Musica non dovrebbe essere “terapeutica”?
Oppure si parla d’altro quando si tira in ballo la “Musicoterapia”?
Forse che quest’ultima è stata inventata solo per gli “emotivamente disturbati”?
Ma allora non rientra in questo campo una ragazza di 14 anni che arriva a convincersi di provare i sentimenti di un uomo di 60 anni vissuto nel 1700?
Fossi Beehtoven, nel vedere una ragazzina che cerca di interpretare la sonata n°111, le direi: <<>>.
Curioso che la Musica (l’arte in genere) sia arrivata a riconoscersi su due filoni distinti:
la Musica da concerto e la Musicoterapia.
L’una per “quelli sani” e l’altra per ”quelli malati”.
Il fatto è che, così facendo, si preclude la realtà del concerto alla Musicoterapia e la realtà della terapia alla musica da concerto, con il risultato che chi fa musica da concerto è autorizzato a diventare pazzo e chi fa musicoterapia, quando è "guarito", è incoraggiato ad andare a cercarsi un “lavoro serio”.
Questa spaccatura tra la Musica è un po’ lo specchio del nostro tempo, siamo d’accordo, ma cosa facciamo allora, continuiamo solo a guardare?

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